ho sempre pensato che per lavorare ‘nelle’ vite degli altri si debba sentire FORTE la responsabilità di non tirar loro addosso i pezzi della tua vita irrisolta.
Non so come spiegarlo meglio. Ma dentro questo ‘tirare addosso’ metterei tutti i consigli ‘fai come me’, ‘non fare come me’ e tutte quelle induzioni nascoste ad acquisire i comportamenti giusti, dove per giusti si intende ‘fai quello che è giusto secondo me’.
Non è facile. Anche noi “addetti ai lavori” abbiamo un inconscio! 😉
Per riuscire anche solo a provarci bisogna essere IRRIMEDIABILMENTE ONESTI CON SE’ STESSI E POI – SOLO POI – approcciare un’altro essere umano… “secondo me”.
Non è facile. Ma a volte – con la apertura e la connessione – incontri maestri inattesi. Anni fa io ho ‘incontrato’ Jodorowsky. Inaspettatamente e in strade che fino a prima mi sembravano sentieri fitti di arbusti deresponsabilizzanti. 🙂
Mai avevo trovato così ben espresso un pensiero. Una convinzione. Che mi ha sempre accompagnata…mentre scavavo dentro di me, per stare bene, per tirar fuori il mio essere intero e…per essere sicura di far bene il mio lavoro con gli altri…
Ve lo metto qui. Questo pensiero di Jodorowsky, che ringrazio per toccarmi sempre l’anima col suo modo di scrivere e parlare. Questa è la mia interpretazione del mio approccio al lavoro che faccio. Scritta con le parole di un poeta dell’animo più denso. Questo è quello che voglio dare ad ogni persona che entra nel mio studio. E’ quello che metto in un progetto. E ogni volta che ricevo una domanda alla quale spesso…rispondo con un altra domanda.
“…Al momento di leggere le carte, il tarologo deve osservare il consultante come se fosse un medico del corpo e dell’anima.
Tenere un considerazione la postura, le tensioni muscolari, la statura, il peso, la qualità e il colore della carnagione, il modo di respirare, i punti in cui risuona la voce. Poi sentire le sue preferenze sessuali. Domandarsi se la persona ama o è amata e anche quali siano le sue idee. Tutto ciò fornirà un ritratto rivelatore del livello di Coscienza del consultante. Un ritratto cui si deve arrivare con grande precauzione: può darsi che il consulto venga richiesto per una curiosità superficiale o per cercare non una rivelazione ma un calmante che aiuti a sopportare senza dolore quello che sta accadendo. Un conto è dare, un conto è obbligare a ricevere. E’ facile per una lettura trasformarsi in veleno. E’ una tentazione fare predizioni catastrofiche per il lettore “veggente”, che considera verità assolute le proprie conclusioni soggettive: ma, pur essendo motivate da un sincero desiderio di aiutare, rischiano di intossicare lo spirito del consultante. Valga come esempio una notizia comparsa sui giornali lunedì 20 gennaio 2003: “Mircea Teodorascu, un rumeno di 51 anni residente nella regione del Bacau (Romania dell’est), ha creduto di trovare nel suicidio una soluzione ineluttabile. Qualche giorno prima, un’indovina gli aveva predetto una morte nei giorni successivi: la sua o quella del figlio di ventitrè anni. Di ritorno a casa, Mircea Teodorascu, per “salvare il figlio”, si è pugnalato con un lungo coltello da cucina. Trasportato d’urgenza all’ospedale, è deceduto poco dopo”.
Il tarologo deve saper rinunciare a ogni pretesa di indovinare il futuro, e rendersi conto di quali motivi lo spingano a leggere le carte. Per ottenere potere sulla vita degli altri? Per guadagnare tanti soldi creandosi dei clienti? Per farsi ammirare? Per condividere i propri problemi? Per sedurre sessualmente? Se la nostra posizione in quanto lettori non è chiara, non sarà chiara neanche la lettura. Essendo i Tarocchi un insieme di simboli, oscuri perché sono iniziatici, essi diventano un linguaggio fondamentalmente soggettivo. Il tarologo ha bisogno di sapere quale genere di contenuti psicologici proietti il proprio inconscio sul lettore. Nessuno può dire di conoscersi veramente. Conosciamo soltanto quello che siamo nel momento in cui ci osserviamo, ma lo spirito, come l’universo, è in perenne espansione. Un’attenzione costante, un severo stato di allerta, l’accettazione sincera delle pulsioni che ci incalzano per essere tenute sotto controllo e venire guidate verso interpretazioni oggettive, devono orientare la nostra lettura. E’ possibile che un consultante assomigli a nostra madre, a un altro famigliare o a qualcuno che, nell’infanzia, ci ha fatto subire qualche costrizione. Se non ne siamo consapevoli, tratteremo il consultante con lo stesso rancore che riserveremmo a chi ci ha fatto del male. Impossibile dire: “Non farò proiezioni”. Ma è possibile dire: “Sarò consapevole delle mie proiezioni”. Perciò, quando leggiamo i Tarocchi, dobbiamo sapere come ci sentiamo. Vedere se il consultante ci sta simpatico oppure antipatico, se ci fa paura, se ci attrae sessualmente, se lo ammiriamo, se lo giudichiamo senza pietà. Uno dei rischi maggiori della lettura è quando il lettore giudica moralmente il consultante. Perché nel Giudizio (le Jugement), “il giudice mente” (le juge ment).
Ma come si fa a leggere senza manipolare, senza guidare, senza ergersi a Maestro?
Per non scivolare in questi errori, mi sono proposto di non elargire mai consigli, ma di strutturare la lettura in modo che la soluzione arrivasse dal consultante stesso. Per raggiungere tale obiettivo mi sono basato sugli studi relativi all’analisi dei sogni: lo psicanalista non deve spiegare al paziente il segreto dei simboli onirici. Infatti, ciò significherebbe interpretare il ruolo di madre-padre, relegando il cliente in una perenne infanzia. Il paziente deve sviscerare da solo i messaggi che gli vengono inviati dal subconscio. L’analista può presentare diverse soluzioni. Spetta al consultante scegliere la via che più gli conviene.
Pertanto, il lettore di Tarocchi deve raggiungere una perfetta neutralità, dimenticando, nell’intenso dono di se stesso, i propri desideri, sentimenti e opinioni. Ma se riesce a trasformarsi in un “uomo invisibile”, chi sarà a leggere i Tarocchi? Usando una metafora, direi uno specchio. Nella limpidezza del nostro spirito si riflette il livello di coscienza del consultante. Usando un linguaggio adatto a lui (ad esempio, nel caso di un bambino, utilizzando un linguaggio infantile), mimetizzandoci con l’altro linguaggio faremo sì che, attraverso la nostra vacuità, attraverso i nostri gesti e parole, il consultante si legga i Tarocchi da solo, La lettura darò una soluzione che corrisponda al mondo dell’altro e non al nostro. Le nostre soluzioni non sono le sue soluzioni,
Se il consultante non è d’accordo con la nostra lettura, non dobbiamo cercare di convincerlo: bisogna sempre dargli ragione, perché è della sua vita che si tratta. In realtà, l’inconscio è il nostro alleato. Se si rifiuta di rivelarci un segreto è perché non siamo ancora pronti. La rivelazione non va mai forzata. Dobbiamo ottenerla con grande prudenza.
Abbiamo parlato non soltanto delle parole del tarologo, ma anche dei suoi gesti. Per impiegarli bene, innanzitutto dobbiamo osservare la posizione del consultante: lo faremo sedere di fronte a noi? Al nostro fianco? Lo faremo sedere davanti, così noi, dietro a lui come un’ombra, potremo guidare la sua lettura? La scelta spetta al tarologo. L’uno di fronte all’altro è seduzione (pericolo di abuso di potere: il consultante si sottomette come un bambino). Al nostro fianco c’è uno scambio emozionale (pericolo di transfert incestuoso: il consultante cerca di coinvolgerci in un legame simbiotico). Dietro alle spalle, come un’ombra (pericolo di divinizzazione: il consultante ci scambia per un mago onnipotente). Tutte le posizioni sono utili, ma racchiudono un pericolo. Un gesto goffo, o troppo energico, o insistente oppure disordinato può condizionare negativamente la comprensione del consultante e minarne la fiducia…
A Kyoto, in Giappone, ho avuto la fortuna di assistere a una cerimonia del tè officiata da un maestro. La grande consapevolezza che si leggeva in ciascun gesto del maestro durante la preparazione di una “semplice” tazza di tè, la sua umanità, il senso estetico, l’economia dei movimenti mi hanno segnato tutta la vita. Ho deciso che dovevo riuscire a organizzare i gesti della lettura dei Tarocchi con l’umile perfezione zen di una cerimonia del tè.
Porgiamo al consultante il mazzo di carte da mescolare con un gesto chiaro e misurato, tenendolo non troppo vicino a noi ma neanche troppo vicino a lui. La metà del tragitto (offerta) deve percorrerla il tarologo. L’altra metà deve percorrerla il consultante (ricevimento attivo). Mentre la persona mischia le carte, il lettore rimane immobile, sereno. La voce con sui si esprime non gli risuona in testa, ma nel petto, è una voce dolce, la voce con cui si parla ai bambini, e proviene dal cuore, non dall’intelletto. E’ un tono di una bontà difficile da raggiungere… Per conquistarlo, il tarologo deve avvicinarsi a uno stato di santità… Non parlo dell’aspetto esteriore, stereotipato, di un santo da calendario, ma di un sentimento vero, poetico e sublime. Diverse religioni si sono impossessate del concetto di santità, conferendogli significati limitanti. Fra questi limiti ci sono: la negazione della sessualità, della riproduzione, della famiglia, unitamente all’esaltazione del martirio, alla negazione della sensualità, al rifiuto del mondo reale in nome di un mitico aldilà. Si parla di santi cattolici, musulmani, buddisti, ebrei (i “giusti”), ma non si riesce a concepire la santità civica. Il cittadino santo può fare l’amore, avere figli, crearsi una famiglia, godere in modo sano della vita, non appartenere a sette, non adorare dottrine dettate da un dio che ha un nome e una figura, praticare una morale non fondata su divieti, ma sull’idea di compiere gesti utili all’umanità. Il lettore di Tarocchi, se non è un santo, deve imitare la santità. In alcune culture orientali, le scimmie, i pappagalli e i cani vengono descritti come animali sacri che rappresentano l’ego individuale, essendo capaci di imitare i loro padroni.
Come si fa a imparare ad imitare un santo? La santità non è innata, non è neppure un dono che proviene dall’esterno; la si raggiunge poco a poco. Per essere forti nel grande bisogna essere forti nel piccolo, nel quotidiano, esercitandosi a dare senza aspettarsi di venire ringraziati, o ricevere denaro, o attenzione, o sottomissione… Senza confrontarsi e senza mettersi in concorrenza, ma accettando con umiltà i valori degli altri… Senza sbandierare il nostro punto di vista come un0unità di misura del mondo, ma accettando con benevolenza le diversità… Imparando, tra l’altro, a concentrare l’attenzione, a controllare, durante la lettura, a controllare i nostri pensieri, desideri, emozioni; a vincere la nostra pigrizia, a terminare sempre quello che abbiamo cominciato, a non innervosirci se il consultante rifiuta la presa di coscienza, a fare al meglio quello che stiamo facendo, a eliminare vizi e manie, a compiere gesti di generosità senza avere testimoni, a purificare lo spirito eliminando gli interessi superflui senza scivolare nell’eccessiva autocritica e nemmeno nell’autoindulgenza, a ringraziare consapevolmente per ciascun dono, a meditare, a pregare davanti al Dio interiore, a contemplare, a conversare con noi stessi su argomenti profondi, ad affinare i sensi, a smetterla di autodefinirci, a saper ascoltare, a non mentire e a non mentirci, a non crogiolarci nel dolore e nell’angoscia, ad aiutare il prossimo senza renderlo dipendente da noi, a non desiderare di essere imitati, a impiegare il tempo in modo lucido, a pianificare il lavoro, a non occupare troppo spazio, a non sprecare, a non fare rumori inutili, a non mangiare alimenti malsani soltanto per darci piacere, a rispondere il più onestamente possibile ad ogni domanda, a vincere la paura della vita e della morte, a non vivere soltanto il qui ed ora ma anche il là e il dopo, a non abbandonare mai i nostri figli ma a vegliare su di loro fin dall’infanzia, a non impadronirci di niente e di nessuno, a suddividere equamente, a non adornarci con vestiti e accessori per vanità, a non ingannare, a dormire il minimo necessario, a non seguire le mode, a non prostituirci, a rispettare scrupolosamente qualsiasi contratto firmato e ogni promessa, a essere puntuali, a non invidiare il successo altrui, a parlare il minimo necessario, a non pensare ai benefici che si possono trarre da un’opera ma amare l’opera per se stessa, a non minacciare mai né maledire, a metterci nei panni dell’altro, a fare di ogni attimo un maestro, a desiderare ed accettare di essere superati dai nostri figli, a insegnare ai consultanti a imparare da se stessi, a vincere l’orgoglio trasformandolo in dignità, la collera in creatività, l’avarizia in saggezza, l’invidia in ammirazione per la bellezza, l’odio in generosità, la mancanza di fede in amore universale; imparando a non applaudirci né a insultarci, a non lamentarci, a non dare ordini per il piacere di farci obbedire, a non contrarre debiti, a non parlare mai male degli altri, a non conservare oggetti inutili, e, soprattutto, a non operare mai a proprio nome ma sempre in nome del Dio interiore…”
(A. Jodorowsky – La Via dei Tarocchi – Ed. Feltrinelli)